UFFICIALE GENOA CLUB

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dimarts, 21 d’agost del 2007

Il padre di Spagnolo: "Non si può morire per una partita"

Il messaggio del papà del tifoso genoano ucciso da un ultrà rossonero il 29 gennaio 1995, a 24 anni: "Per Genoa-Milan non si parli di vendetta. Mi aspetto una lezione di civiltà"
«NON VOGLIO altro dolore, non voglio altra violenza. Ho perso un figlio, per una partita di calcio. E non si può morire così. Lo dico a tutti i tifosi d’Italia, non solo agli ultras del Genoa o del Milan».
Ascoltate questo padre. La sua testimonianza. Sa che cos’è la sofferenza. Cosimo Spagnolo ha 64 anni. Era il 29 gennaio del 1995 quando suo figlio, Vincenzo Spagnolo, detto «Spagna», fu accoltellato a morte, a 24 anni, da un ultrà rossonero, Simone Barbaglia, prima di Genoa-Milan. Da quel giorno, le due squadre non si sono più incontrate. Torneranno a farlo domenica a Marassi, dodici anni dopo. A Genova c’è grande preoccupazione e allarme. «Ma non si parli di vendetta, diamo una lezione di civiltà», il suo appello.
Signor Spagnolo, il prefetto di Genova vuole vietare Marassi ai tifosi del Milan. «Ho letto, ma uno stadio dovrebbe essere sempre aperto a tutti, perché il calcio è di tutti».
Non teme anche lei scontri fra le due tifoserie? «In questi anni, anche se per me è come se tutto fosse successo ieri, ho mantenuto i contatti con gli amici di mio figlio, ne aveva anche fra i sampdoriani, parlando con me hanno sempre condannato la violenza. Condannare vuol dire non condividere. E se domenica dovesse succedere qualcosa di brutto, ci resterei molto male, mi sentirei tradito».
Che cosa ha detto, agli amici di suo figlio? «Che la violenza non ha senso. Contro chi, poi? Contro altri giovani, altre famiglie innocenti? Ma io credo a questi ragazzi, mi fanno pensare che non dovrebbe succedere niente di grave. Nel caso opposto, vorrebbe dire che non sono stati sinceri con me. Anche se...»
Anche se? «Il rischio di qualche testa calda, di qualche cane sciolto c’è sempre, ma il vero pericolo sono i portatori di veleno, i cattivi maestri delle curve. Loro sì, che dovrebbero essere allontanati dagli stadi».
A chi si riferisce, quando parla di cattivi maestri? «Ai capi più anziani, quelli che riuniscono i ragazzi in pizzeria per inculcare la violenza, che ricattano le società per avere i biglietti da vendere come bagarini, che minacciano in caso contrario incidenti per fare squalificare il campo, che ne hanno fatto un modo per guadagnare. Ci sono molti interessi, troppi. I club spesso hanno paura, non li denunciano, come invece ha fatto recentemente proprio il Milan, e ha fatto bene».
Suo figlio faceva parte di un gruppo? «Seguiva il Genoa, ma non aveva rapporti più di tanto con il mondo ultrà. Lavorava a Porto Rotondo, nell’agenzia immobiliare della sorella, era odontotecnico, veniva da noi solo per i fine settimana».
E’ cambiato qualcosa, secondo lei, in dodici anni? «No. Troppa impunità, chi sbaglia non paga come dovrebbe».
Si riferisce a Barbaglia, scarcerato grazie all’indulto, definitivamente libero dal 28 febbraio? Aveva 18 anni, quando uccise suo figlio. «Sì, mi riferisco a lui. Volevo giustizia, in base alla legge. Oggi è libero come noi, dopo aver tolto la vita a un ragazzo che aveva sei anni più di lui».
L’iter della legge, ha scontato la sua pena. «Troppi cavilli. In Inghilterra sono riusciti a sconfiggere la violenza applicando la legge, ma con la necessaria severità».
Ha mai avuto contatti con la famiglia Barbaglia? «No, mai».
E con il Milan? «I primi giorni dopo il dramma, poi niente, silenzio».
E’ più entrato in uno stadio? «Solo per il torneo estivo del Genoa in memoria di mio figlio».
Com’è, oggi, la sua vita? «Da pensionato. Sono stato un responsabile nel settore cantieri navali di Sestri, ma non avevo più stimoli, sono andato in pensione due anni dopo la tragedia».
Che cosa ha provato nei giorni dell’omicidio Raciti? «E’ stato come rivivere il momento della morte di mio figlio. Le cose non sono cambiate».
Antonio Matarrese, presidente della Lega, disse: «Il calcio non può chiudere, i morti purtroppo fanno parte del sistema». «Detta da un dirigente con la sua carica, non da una persona qualsiasi, mi sembra una frase molto grave. E’ il momento di cambiare il sistema, ecco che cosa mi aspettavo che dicesse il signor Matarrese».
Che cosa ha capito, in questi anni, della mentalità ultras? «Che è difficile da capire. Presi da soli, questi ragazzi sono anche fragili, piangono, poi scatta la logica del branco da stadio, la necessità di non fare brutta figura con i loro cattivi maestri, appunto».
Che cosa vuole dire, ancora, sulla partita di domenica? «Che i veri valori del calcio sono altri, che lo sport deve essere vicinanza. E che sia solo una partita, il modo migliore per ricordare mio figlio».